Colpo di scena tra Ankara e Washington. Ieri la Turchia ha richiamato il proprio ambasciatore negli Stati Uniti per consultazioni, dopo il riconoscimento , da parte della commissione Esteri della Camera dei Rappresentanti americana, di una risoluzione che condanna come «genocidio» le stragi di armeni, perpetrate in Turchia durante la Prima guerra mondiale.
«Abbiamo richiamato per consultazioni il nostro ambasciatore a Washington», hanno spiegato fonti turche, precisando tuttavia che l'iniziativa «non va intesa come un ritiro permanente», poiché il diplomatico «rimarrà ad Ankara per alcuni giorni», hanno precisato. Una riprova della profonda irritazione della Turchia dove ieri si sono svolte manifestazioni anti-americane. La crisi sta rapidamente imboccando la via dell'escalation. Oltre al presidente della Repubblica, Abdullah Gul, che ha parlato di «mozione inaccettabile», il più esplicito nell'indicare lo stato di profondo risentimento e frustrazione del Paese, il giorno dopo l'approvazione della mozione, è stato il quotidiano filo governativo Zaman: «Se la mozione pro-armeni dovesse passare anche in aula alla Camera dei Rappresentanti (come ribadito ieri da Nancy Pelosi, speaker della Camera bassa), al quel punto aumenterebbero le probabilità di un'incursione turca in Nord Iraq».
Una minaccia di far saltare i delicati equilibri anche nell'unica zona finora relativamente stabile (il Kurdistan iracheno), che sta facendo vacillare l'alleanza tra Ankara e Washington, incrinata non da una storia di "fantasmi del passato", ma da un attacco al cuore del sentimento nazionale turco. Un nervo sensibile, un tabù su cui nessuno nel Paese (militari, nazionalisti dell'Mhp, filoislamici dell'Akp e seguaci di Ataturk del Chp) è pronto a trattare: «Vatan Bolunmez», «la Patria non può essere divisa». Né dai curdi, né dal passato che non passa. Al punto che ieri è stato condannato a un anno di carcere con la condizionale Arat Dink, figlio di Hrant, lo scrittore di origine armena, ucciso a gennaio da un ultranazionalista turco. Hrant era direttore del giornale bilingue (turco e armeno) Agos. Padre e figlio, entrambi giornalisti, erano accusati (insieme a Serkis Seropyan, responsabile di Agos, anche lui condannato in base al famigerato articolo 301 del Codice penale) di «insulto all'identità turca» per aver parlato del genocidio armeno.
Un quadro complesso, cui si aggiungerà la prossima settimana, l'approvazione da parte del Parlamento di Ankara di una mozione che autorizzerà l'esercito (che ha già schierato 200mila uomini) a compiere una vasta incursione nel Nord dell'Iraq e attaccare le basi da cui partono i terroristi del Pkk per colpire in Turchia. Una situazione di crisi a cui si potrebbe aggiungere la minaccia di Ankara di negare agli americani l'uso della strategica base aerea di Incirlik, che oggi funziona come il più importante avamposto verso l'Iraq e l'Afghanistan (una sorta di Aviano del Medio Oriente).
Esulta, al contrario, la vicina Erevan, la capitale della cristiana Armenia, con una frontiera chiusa da anni e ieri percorsa da nuove tensioni.
«Abbiamo richiamato per consultazioni il nostro ambasciatore a Washington», hanno spiegato fonti turche, precisando tuttavia che l'iniziativa «non va intesa come un ritiro permanente», poiché il diplomatico «rimarrà ad Ankara per alcuni giorni», hanno precisato. Una riprova della profonda irritazione della Turchia dove ieri si sono svolte manifestazioni anti-americane. La crisi sta rapidamente imboccando la via dell'escalation. Oltre al presidente della Repubblica, Abdullah Gul, che ha parlato di «mozione inaccettabile», il più esplicito nell'indicare lo stato di profondo risentimento e frustrazione del Paese, il giorno dopo l'approvazione della mozione, è stato il quotidiano filo governativo Zaman: «Se la mozione pro-armeni dovesse passare anche in aula alla Camera dei Rappresentanti (come ribadito ieri da Nancy Pelosi, speaker della Camera bassa), al quel punto aumenterebbero le probabilità di un'incursione turca in Nord Iraq».
Una minaccia di far saltare i delicati equilibri anche nell'unica zona finora relativamente stabile (il Kurdistan iracheno), che sta facendo vacillare l'alleanza tra Ankara e Washington, incrinata non da una storia di "fantasmi del passato", ma da un attacco al cuore del sentimento nazionale turco. Un nervo sensibile, un tabù su cui nessuno nel Paese (militari, nazionalisti dell'Mhp, filoislamici dell'Akp e seguaci di Ataturk del Chp) è pronto a trattare: «Vatan Bolunmez», «la Patria non può essere divisa». Né dai curdi, né dal passato che non passa. Al punto che ieri è stato condannato a un anno di carcere con la condizionale Arat Dink, figlio di Hrant, lo scrittore di origine armena, ucciso a gennaio da un ultranazionalista turco. Hrant era direttore del giornale bilingue (turco e armeno) Agos. Padre e figlio, entrambi giornalisti, erano accusati (insieme a Serkis Seropyan, responsabile di Agos, anche lui condannato in base al famigerato articolo 301 del Codice penale) di «insulto all'identità turca» per aver parlato del genocidio armeno.
Un quadro complesso, cui si aggiungerà la prossima settimana, l'approvazione da parte del Parlamento di Ankara di una mozione che autorizzerà l'esercito (che ha già schierato 200mila uomini) a compiere una vasta incursione nel Nord dell'Iraq e attaccare le basi da cui partono i terroristi del Pkk per colpire in Turchia. Una situazione di crisi a cui si potrebbe aggiungere la minaccia di Ankara di negare agli americani l'uso della strategica base aerea di Incirlik, che oggi funziona come il più importante avamposto verso l'Iraq e l'Afghanistan (una sorta di Aviano del Medio Oriente).
Esulta, al contrario, la vicina Erevan, la capitale della cristiana Armenia, con una frontiera chiusa da anni e ieri percorsa da nuove tensioni.
Nessun commento:
Posta un commento