venerdì 10 ottobre 2008

Il giallo del Trasimeno

Un mio amico giornalista mi ha fornito la sua ricostruzione dei fatti relativi all’omicidio Narducci:

Il “giallo” del Trasimeno intorno alla scomparsa del dottor Narducci

di F. Pantaleone Vinci


Il “giallo” del Lago Trasimeno, vale a dire la morte misteriosa nelle acque del lago del dottor Francesco Narducci, gastroenterologo al Policlinico di Monteluce a Perugia, è ormai da molti anni oggetto di interesse dell’opinione pubblica, dei giornali e delle televisioni. E’ incerta la causa del decesso e altrettanto incerti i collegamenti che ipotizzano gli inquirenti tra la morte del medico perugino ed i delitti del mostro di Firenze. Ancora non si sa se il professionista sia stato ucciso, come pensano gli investigatori, perché in qualche modo coinvolto nelle indagini sui “compagni di merende”o si sia suicidato, dopo aver ingerito meperidina.
Qui non s’intende sposare né l’ipotesi degli investigatori, che pensano all’omicidio, anche se in tanti anni di indagini non sono stati in grado di trovare le prove a sostegno della loro ipotesi investigativa, né avallare la tesi della famiglia che ipotizza, invece, una disgrazia o, in subordine, un suicidio.
Rivediamo dall’inizio, sia pure sinteticamente, i fotogrammi del mistero del lago.
Nella tarda mattinata dell’8 ottobre del 1985, calda e gradevole giornata autunnale, squilla il telefono di Peppino Trovati, gestore, a San Feliciano, di una delle più attrezzate darsene del Trasimeno. E’ il dottor Narducci che chiede di sapere se la sua imbarcazione, un motoscafo di medie dimensioni, è ancora in acqua, perché è già autunno e Peppino, da sempre, terminata l’estate, fa il rimessaggio e molte barche le trasporta in un capannone. Al telefono risponde la moglie, Giuseppina, che s’informa dal marito, il quale risponde che la barca, per puro caso, è ancora in acqua, nella darsena.
La richiesta del dottor Narducci stupisce un po’ perché in tutta la stagione estiva, il medico non aveva mai preso il motoscafo ed è cosa assai strana che si sia ricordato quando è già autunno. E’ una riflessione fatta a posteriori, naturalmente, perché in quel momento, Peppino, persona estremamente corretta e riservata, non ha fatto considerazioni o commenti. E così, verso le 15,30, Francesco Narducci, con la moto, da solo, arriva alla darsena di San Feliciano. Indossa pantaloni lunghi e un giubbino di pelle. Parcheggia e sale sulla barca. Peppino ha solo il tempo di dirgli se ha bisogno di carburante, considerando che la barca è stata ferma per molto tempo, ma il medico risponde che non ha intenzione di andare molto lontano, vuole prendere soltanto un po’ di sole, lì vicino. Da questo momento si perdono le tracce del dottor Narducci. Ha fatto salire a bordo qualcuno? La cosa sarebbe possibile perché a sinistra della darsena, a circa cento metri, c’è il pontile di San Feliciano, e a destra, un po’ più lontano, c’è il pontile di Monte del Lago. In entrambi i pontili però ci sono spesso dei pescatori che osservano tutto ed ai quali difficilmente sarebbe sfuggita un’operazione di questo tipo, considerando che si era ormai fuori stagione.
Ha avuto un incontro con qualcuno al largo, a bordo di un’altra imbarcazione o all’isola Polvese, che è proprio di fronte, a circa mezzo miglio dalla darsena di Trovati?
In teoria sarebbe tutto possibile. Solo che la persona che lo attendeva doveva essere stata informata per tempo e doveva essere andata appositamente al lago, ad ottobre non ci sono tanti che vanno a prendere il sole. Le variabili possono essere tante, anche per avvalorare l’ipotesi dell’omicidio, ma l’assassino deve essere stato qualcuno che ha architettato e poi commesso il delitto in poche ore, il tempo intercorso tra la telefonata fatta a Trovati, probabilmente dalla clinica medica del Policlinico di Perugia, dove si trovava quel giorno il dottor Narducci, al momento dell’omicidio. Troppo poco tempo per organizzare e commettere un delitto. Non solo, l’assassino (o gli assassini) doveva avere un’imbarcazione disponibile e doveva essere di corporatura robusta perché Narducci era, a 36 anni, nel pieno del suo vigore fisico, un uomo aitante e muscoloso, e ci sarà voluta molta forza per ucciderlo, se la morte, secondo quanto hanno ipotizzato i medici che hanno eseguito l’autopsia soltanto nel 2002 (dopo 17 anni!) quando è stata aperta l’inchiesta, è (sarebbe) avvenuta per “asfissia meccanica violenta prodotta da costrizione del collo”.
Intanto Peppino, al calar delle tenebre, vede che c’è ancora la moto di Narducci parcheggiata, senza che del medico ci siano notizie, allora, giustamente preoccupato, chiama la famiglia. Si precipita alla darsena il fratello dello scomparso, Pier Luca, anche lui medico, ginecologo, che dà l’allarme e le forze dell’ordine cominciano le ricerche, aiutati da alcuni volontari. Si trova quasi subito la barca, la vede, intorno alle 22, tra le cannine, nella parte nord-ovest dell’Isola Polvese, Ugo Mancinelli, un noto commerciante del luogo, ma del medico nessuna traccia, finché cinque giorni dopo alcuni pescatori, i cugini Baiocco, rinvengono, vicino a Sant’ Arcangelo, il corpo del medico. Con l’aiuto di Aristide Baldassarre, un altro pescatore di Sant’Arcangelo, i carabinieri recuperano il cadavere e lo adagiano sul pontile, coperto con l’impermeabile dello stesso Baldassarre. I pescatori hanno raccontato di aver visto il cadavere leggermente gonfio, completamente vestito, con il giubbino di pelle ancora abbottonato. Quest’ultimo particolare non appare affatto secondario perché una persona che viene strangolata qualche movimento brusco, nel tentativo di divincolarsi lo deve pur fare ed il giubbino, come minimo, si sarebbe sbottonato. Ma ci sono dei dubbi (da parte degli investigatori) sulla vera identità della salma recuperata.
Tutti quelli che l’ hanno vista hanno detto che si trattava, senza ombra di dubbio, di Francesco Narducci. Come facevano a saperlo? E’ possibile che abbiano visto la foto sui giornali ed in televisione nei giorni successivi alla scomparsa, ma alcuni di loro lo conoscevano personalmente, come i Baiocco che l’hanno scoperto in acqua. E poi lo hanno riconosciuto anche il fratello ed il padre. La salma poi viene trasportata nella villa della famiglia a San Feliciano dove, il giorno della scomparsa, il guardiano ha riferito agli inquirenti di aver visto sul tavolo, bene in vista, un foglietto. Un messaggio lasciato dal dottore? Di questo biglietto non si sa nulla, non è stato mai trovato. In quella villa viene fatta - secondo l’ipotesi accusatoria - un’ altra operazione: si sostituisce il cadavere appena pescato, con quello di Narducci , ucciso per strangolamento. Questo perché quello ripescato - sostengono sempre gli inquirenti - non è il corpo di Narducci. Tutti si sono sbagliati, anzi, peggio, hanno detto il falso, perché tutti erano d’accordo per “depistare le indagini”. Questo pensa il magistrato inquirente di Perugia, Giuliano Mignini che segue il filone umbro dell’inchiesta più ampia, sul mostro di Firenze, seguita, nel capoluogo toscano, dal pm Paolo Canessa con il comandante della squadra antimostro della Polizia, Michele Giuttari. Da qui gli avvisi di garanzia: con i familiari di Francesco Narducci, il padre Ugo ed il fratello Pier Luca, sono indagati l’avvocato della famiglia, Alfredo Brizioli, l’ex questore Francesco Trio, l’ex comandante dei carabinieri colonnello Francesco Di Carlo nonché, la dottoressa che quel giorno firmò il certificato di morte, Donatella Seppoloni.
Sono state perquisite le loro abitazioni perché - per l’accusa - fanno tutti parte di “un’associazione a delinquere finalizzata al vilipendio, alla distruzione e all’occultamento di cadavere”. E’ l’ultimo colpo di scena dell’inchiesta perugina. Per tre degli indagati: l’avvocato Brizioli (secondo l’accusa ci sarebbe stato anche, da parte dell’avvocato, un intervento subacqueo nel lago, con muta e pinne, il giorno dopo la scomparsa del medico), l’ex questore Trio e l’ex comandate dei carabinieri di Perugia, Di Carlo, il pm ha chiesto al gip, addirittura l’arresto, che non è stato concesso, ma Mignini ha ripresentato la sua richiesta al Tribunale del riesame, che poi ha deciso di sì solo per l’avvocato Brizioli.
Il magistrato inquirente è fortemente convinto - lo si vede anche dalla tenacia con cui ha condotto le complesse indagini - di un’ipotesi agghiacciante e cioè che tutta l’attività di depistaggio, che avrebbe anche portato alla sostituzione della salma, è dovuta al fatto che Ugo Narducci, il padre del medico morto, era a conoscenza del coinvolgimento del figlio nelle indagini della Procura di Firenze sul mostro e sugli otto duplici delitti legati a quella losca faccenda dei “compagni di merende”, nella quale - si ricorderà - sono stati a vario titolo coinvolti Pietro Pacciani (morto nel ’98, in attesa di processo), Giancarlo Lotti (condannato a 26 anni e deceduto nel 2002) e Mario Vanni (condannato all’ergastolo). Ma questi, secondo quanto sostengono sia il procuratore di Firenze che quello di Perugia, potrebbero essere soltanto gli esecutori, i mandanti dei delitti, che avvennero dal 21 agosto del 1968 al 9 settembre del 1985 (l’ultimo un mese prima della morte di Narducci) sarebbero invece altri, tra cui appunto - sempre secondo gli investigatori - Francesco Narducci e un farmacista di San Casciano, di 63 anni, Francesco Calamandrei. Quest’ultimo, però, è stato processato recentemente ed assolto in primo grado.
Per l’accusa, gli omicidi venivano fatti per poi tagliare con “precisione chirurgica”, probabilmente con un bisturi, il pube delle ragazze e offrirlo a Satana durante le messe nere.
Per questo, per allontanare queste terribili ombre sulla vita segreta del figlio e non coinvolgere la sua famiglia in questa catena di sangue, gli investigatori ritengono che il dottor Ugo Narducci, abbia cercato in tutti i modi di far passare come suicidio quello che invece suicidio non era, e di evitare l’autopsia, contando sul questore Trio, suo carissimo amico, nonché sulle altre amicizie influenti di cui poteva godere, comprese le affiliazioni massoniche.
La salma, dal pontile di Sant’Arcangelo, viene trasportata nella villa, che la famiglia Narducci aveva a San Feliciano, e lì avviene anche lo scambio delle salme. Quella ripescata è di un metro e 72 centimetri mentre Narducci era alto un metro e 80 centimetri. Forti pressioni, per nascondere la verità, ci sarebbero state anche nei confronti di alcuni investigatori. Secondo quanto scrive il dottor Mignini “gli agenti Valerio Pasquini ed Emilia Cataluffi, appartenenti a diversi organi di polizia, dovettero interrompere le indagini per ordini superiori e un ispettore non venne creduto quando riferì il modo in cui si è consumato l’omicidio, per incaprettamento “. L’incaprettamento (per chi non lo sapesse) è un metodo barbaro di uccidere una persona, legandogli i polsi e le caviglie dietro la schiena e facendo passare al tempo stesso la corda intorno al collo, cosicché la vittima, nel tentativo di divincolarsi, si strangola da sola.
Un pescatore di Monte del Lago, uno dei tanti interrogati, pare che abbia riferito proprio questo macabro particolare: di aver visto il dottor Francesco Narducci, il giorno dopo la sua scomparsa, incaprettato sulla spiaggia dell’isola Polvese, che, come abbiamo già detto, dista appena mezzo miglio dalla darsena di Peppino Trovati, da dove era partito, con il suo motoscafo, Francesco Narducci . Ma è compatibile la testimonianza di quest’ultimo pescatore con il corpo ripescato nel lago? Anche perché sarebbe da chiedergli perché non informò subito i carabinieri. Come si vede una storia molto ingarbugliata che rimarrà per sempre un “giallo” .
Il dottor Giuliano Mignini, il pm di Perugia, d’altronde, convinto di trovarsi davanti ad un omicidio, ha lavorato per molti anni, con determinato e scrupoloso impegno a questa ipotesi investigativa, senza però trovare i riscontri e le prove per sostenere l’accusa davanti ai giudici di una Corte d’Assise e così è stato costretto a desistere.
Intanto ai delitti del mostro di Firenze si è appassionato anche Tom Cruise che ha deciso di fare un film, tratto dal romanzo sul mostro, best seller negli Stati Uniti, scritto da Douglas Preston e Mario Spezi, quest’ultimo giornalista de La Nazione, anche lui indagato a Perugia, in carcere per 23 giorni su richiesta di Mignini per “depistaggio delle indagini”.

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